Onorevoli Colleghi! - Nel corso dell'inaugurazione dell'anno giudiziario del nuovo millennio, il 12 gennaio 2000, l'allora Procuratore generale della Suprema Corte, Antonio La Torre, nel corso della sua relazione, precisava: «(...) Nuove realtà criminali sono germinate dagli ampli flussi migratori» che hanno generato «ambienti criminali che si sono molto bene inseriti alleandosi con la malavita locale oppure, ancora più spesso, l'hanno soppiantata con veri e propri scontri». Il Procuratore generale ricordava anche come ogni distretto giudiziario segnalasse la difficoltà di identificare queste persone e l'inadeguatezza degli strumenti investigativi e processuali.
      Sono trascorsi sei anni e la situazione allora denunciata si è indubbiamente aggravata, come ciascuno di noi, nelle proprie realtà di riferimento, può quotidianamente constatare.
      Senonché le risposte concrete a quella che, nell'attuale contesto, si presenta come una inarrestabile deriva verso una globalizzazione senza regole, continuano a farsi attendere.
      Forse per una malcelata fiducia nella capacità del mercato di armonizzare la situazione; forse per il consueto approccio italiano di intervenire solo quando le emergenze si sono tradotte in dolorose realtà; forse per carenza di progettualità, certamente, però, al di là delle schermaglie politiche alle quali quotidianamente si assiste anche su questo tema, si ha la sgradevole sensazione di una netta e, a questo punto, colpevole sottovalutazione delle questioni inerenti l'immigrazione.

 

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      Sensazione che si traduce in una assoluta certezza, se si osserva il fenomeno dal particolare angolo visuale della lotta alla sempre più diffusa criminalità di importazione.
      Nei piccoli centri di provincia, o nelle più grandi aree metropolitane, la crescente presenza di cittadini extracomunitari si è spesso tradotta nel loro stabile e definitivo insediamento in quartieri o aree determinati, accompagnato, nelle città, dall'abbandono di tali zone da parte degli originari residenti italiani.
      A Torino e a Genova, ma anche a Milano e a Roma, come in molte altre città del centro-nord, vi sono ormai quartieri popolati in via quasi esclusiva da stranieri, con il conseguente controllo di quelle aree da parte di gruppi organizzati o, comunque, di soggetti dediti ad attività illecite, tanto che, nel corso di attività di indagine, gli operatori hanno spesso dovuto constatare la oggettiva difficoltà di svolgere servizi di osservazione o pedinamenti, sino al verificarsi di vere e proprie aggressioni in occasione di arresti e di interventi.
      Certamente si può osservare che questi sembrano più problemi di insufficiente gestione dell'ordine pubblico, più che questioni inerenti le tecniche di indagine, ma va anche detto che il controllo del territorio da sempre rappresenta una delle caratteristiche di qualsiasi struttura di criminalità organizzata e, purtroppo, questo obiettivo, in molteplici realtà italiane, è stato ormai raggiunto dalla delinquenza di importazione.
      Peraltro, al di là degli inevitabili conflitti connessi alle profonde differenze culturali, religiose, sociali ed economiche tra cittadini italiani e immigrati, il punto critico che si è sviluppato in tema di immigrazione è indubbiamente legato al costante e inarrestabile aumento di reati commessi dagli stranieri, con il diffondersi, soprattutto nelle città, di un profondo senso di insicurezza e di timore in capo agli abitanti, che si sono sentiti, progressivamente, sempre meno tutelati di fronte alle quotidiane aggressioni di un piccolo drappello che, giorno per giorno, vedeva irrobustire le sue fila.
      Furti in esercizi commerciali, scippi, borseggi, furti in appartamento, attività connesse allo sfruttamento della prostituzione, spaccio di droga al minuto, resistenza a pubblico ufficiale, vendita di merce di contrabbando, rapine e piccole estorsioni, rappresentano le attività delinquenziali che più frequentemente vengono commesse dagli immigrati.
      Sarebbe, però, riduttivo ritenere che i crimini commessi dagli stranieri siano circoscritti ai cosiddetti «reati di strada».
      Attualmente, infatti, si è ormai consolidato un doppio livello di criminalità di importazione: da un lato soggetti dediti prevalentemente a reati di minore spessore; dall'altro individui che operano in contesti più ampi e organizzati.
      L'occupazione, anche violenta, di spazi abbandonati dalla criminalità nostrana, da parte dei delinquenti stranieri, ha proiettato questi ultimi verso i livelli apicali delle attività illecite nel settore degli stupefacenti, dello sfruttamento della prostituzione, del commercio di esseri umani.
      Si sono, così, sviluppate vere e proprie organizzazioni criminali, a volte «arricchite» da delinquenti italiani, che sfuggono ai tradizionali schemi associativi, trattandosi anche di piccoli gruppi, spesso composti da individui provenienti dalla medesima città o villaggio stranieri, che interagiscono con altre cellule di una più ampia struttura.
      Ma la riconducibilità di queste organizzazioni alle tradizionali fattispecie normative inerenti i reati associativi non sempre è immediata, risultando più agevole per le vicende connesse al traffico di stupefacenti, più difficoltosa per altri sodalizi.
      In proposito, mentre la delinquenza proveniente dai Paesi arabi ha da sempre avuto un rapporto più blando e rudimentale con il territorio, limitandosi a convivere con le realtà già presenti - trattandosi di gruppi criminali che non hanno una marcata base familiare - la crescita del livello criminale degli albanesi è avvenuta ad opera di gruppi familiari ben radicati nelle rispettive aree di pertinenza.
 

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      Inizialmente gli albanesi, come purtroppo oggi sta accadendo per i rumeni, commettevano furti e altri reati contro il patrimonio.
      Poi, con la caduta del regime di Tirana e la successiva guerra civile, sono passati in modo massiccio allo sfruttamento della prostituzione, reato che non solo garantisce ottimi profitti con pochissimi rischi ma che, soprattutto, permette - tramite le stesse prostitute - il controllo del territorio.
      Creato questo radicamento locale, gli albanesi si sono rapidamente proiettati ad altissimi livelli nel traffico di stupefacenti, armi ed esseri umani, aprendosi, quando necessario anche con la violenza, gli spazi vitali e, oggi, rappresentano la più pericolosa realtà criminale straniera presente nel nostro Paese dove, come è emerso in alcune indagini, hanno stretto legami diretti con la vecchia e forse un po' logora delinquenza nostrana.
      Anche la realtà delle carceri è profondamente mutata.
      Nelle strutture penitenziarie delle grandi città del centro-nord, dove è di gran lunga più ampia la diffusione della criminalità di importazione, gli extracomunitari rappresentano, ormai, la maggioranza dei detenuti, con gli inevitabili contrasti legati alla nascita di nuovi assetti interni e ai conflitti che da essi derivano.
      Facendo ancora riferimento alla realtà torinese, dai dati forniti dalla casa circondariale «Le Vallette», risulta che attualmente più del 50 per cento del totale degli ingressi è relativo a stranieri.
      Se questi dati vengono rapportati al numero di italiani (circa 2 milioni e mezzo) e di stranieri (50 mila con il permesso di soggiorno, forse altrettanti clandestini) che vivono a Torino e provincia, è agevole comprendere quanto sia elevata la percentuale degli immigrati, che fanno ingresso in carcere, sul totale di quelli presenti sul territorio.
      Anche a livello nazionale la situazione è allarmante.
      Infatti, sempre in tema di ingressi dalla libertà - formula utilizzata dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (DAP) nei rapporti sulla popolazione penitenziaria - mentre nel 1987 su un totale di 82.718 persone entrate in carcere soltanto il 12,3 per cento (10.141) era composto da stranieri, nel 2001 su un totale di 78.569 ingressi, 28.098 era costituito da stranieri, con una percentuale che in soli quattordici anni è salita sino al 35,8 per cento, per passare al 39 per cento nel 2004 e al 45 per cento nel 2005.
      Nel primo semestre 2006 su un totale di 47.117 ingressi gli stranieri sono stati 21.682, pari al 46 per cento del totale.
      Nelle strutture penitenziarie del Piemonte i nuovi ingressi nel primo semestre 2006 sono stati 5.134 di cui 3.411 stranieri pari, quindi, al 66 per cento.
      Per quanto attiene, infine, al numero complessivo dei detenuti, nel primo semestre del 2006, a livello nazionale la percentuale di stranieri sul totale degli stessi era pari al 33 per cento.
      Infine, la serie storica 1991-2005 dei detenuti presenti evidenzia come nell'arco di quindici anni gli stranieri sono più che raddoppiati.
      In una prima fase, i reati commessi dagli immigrati sono stati considerati, sotto il particolare profilo del trattamento sanzionatorio loro riservato, una naturale proiezione delle difficoltà di inserimento degli stessi nel tessuto sociale ed economico di una realtà lontana da quella di provenienza, una sorta di costo dell'adattamento a schemi di vita e a valori estranei alla loro cultura, un sintomo delle difficoltà di reperimento di lecite fonti di sostentamento.
      Del resto, le attività delinquenziali poste in essere inizialmente dagli immigrati, per il loro modesto impatto sociale, non destavano un particolare allarme e sembravano, quindi, espressive del disagio di chi non trovava concrete possibilità alternative di un lecito inserimento nel nostro Paese.
      Si è, così, sviluppata una risposta morbida, guidata da un atteggiamento di parziale tolleranza che ha determinato, anche da parte della stessa magistratura, un insufficiente livello di attenzione al fenomeno.
      Dimenticando che l'affermarsi di qualsiasi forma di criminalità organizzata deve
 

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necessariamente fare leva su una robusta manovalanza ed è sempre proiezione di un aumento del numero dei soggetti che delinquono, si sono affrontati, forse con superficialità, i singoli episodi delittuosi commessi dagli immigrati, creando un diffuso sentimento di sostanziale impunità negli individui che entravano in contatto con il nostro sistema giudiziario.
      Sappiamo che nei Paesi di provenienza di molti immigrati, sia quelli islamici che quelli dell'ex blocco dell'Est, il trattamento sanzionatorio, le garanzie per l'imputato e il sistema penitenziario erano - e sono tuttora - lontanissimi dai nostri princìpi di civiltà giuridica. Purtroppo, però, il delinquente di importazione, in un sistema dove le garanzie sono state dilatate oltre ogni ragionevole principio, trova molto appetibile commettere reati per i quali spesso non sconta neppure la pena, con conseguente convincimento dell'esistenza di una sostanziale impunità.
      In questo contesto, scarcerazioni immediate dopo arresti in flagranza anche per reati gravi; pene irrogate contenute nel minimo dei minimi edittali; la totale obliterazione della recidiva; l'applicazione di misure cautelari del tutto inadeguate, quali, ad esempio, la sottoposizione all'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria applicata nei confronti di chi non ha neppure una dimora, erano e sono - a volte ancora oggi - sintomi di un approccio alla questione sul quale si impone una seria riflessione.
      Sospensioni condizionali della pena e attenuanti generiche concesse in modo indiscriminato; fenomeni di vero e proprio «turismo penitenziario», relativi a soggetti che nell'arco di uno stesso anno vengono arrestati anche quattro o cinque volte e immediatamente scarcerati, non solo creano nella collettività la convinzione dell'inadeguatezza dell'impianto preventivo e repressivo, ma determinano, altresì, negli appartenenti alle Forze dell'ordine, un diffuso senso di frustrazione e un sentimento di globale inutilità del proprio operato.
      Si è pertanto sviluppata anche in chi delinque la consapevolezza dell'insufficienza dell'impianto repressivo, rendendo, così, di gran lunga più allettante la soluzione criminale anche per molti soggetti che giungono nel nostro Paese per costruirsi un futuro migliore.
      Tutto ciò si è tradotto, altresì, in un consistente danno per la quota, certamente maggioritaria, degli immigrati che nulla hanno da spartire con la criminalità.
      Ostilità, diffidenza o rifiuto dello straniero trovano le loro radici anche nell'attribuzione indiscriminata, nell'immaginario collettivo, a tutti gli immigrati delle responsabilità derivanti dalle condotte illecite di alcuni di essi. Si tratta di sentimenti e di atteggiamenti che si diffondono sempre più tra i cittadini italiani e che hanno, indubbiamente, molteplici spiegazioni, ma che si rafforzano anche con la diffusa convinzione della sostanziale impunità di cui godono molti criminali di importazione.
      Per affermare e difendere una cultura della tolleranza occorre chiudere con la cultura del perdono comunque e ad ogni costo che, senza differenziare le posizioni e senza valorizzare la capacità di decidere sulle proprie condotte, oblitera il principio di responsabilità - che deve accompagnare ogni forma civile di convivenza - e «imprigiona gli autori di fatti illeciti nel cerchio di ferro degli atti socialmente dannosi che essi compiono, fornendo loro una sorta di simbolica giustificazione permanente, costituendo un incoraggiamento a ripetere quelle condotte» (Didier Peyrat, Justice, novembre 1998).
      In un contesto normativo realmente inadeguato a rendere impossibile la permanenza in Italia di chi vi giunge solo per delinquere, la normativa sull'immigrazione (testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286) con le modifiche alla stessa, apportate, in particolare, dalla legge 30 luglio 2002, n. 189, non affronta alcuni nodi fondamentali per rendere realmente incisiva la lotta alla criminalità straniera.
      Nonostante il susseguirsi di numerosi interventi in tema di immigrazione, il legislatore non ha predisposto alcuno strumento per neutralizzare la diffusa prassi
 

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dell'utilizzo delle false generalità da parte dello straniero che delinque.
      Sul fronte delle indagini è, infatti, spesso impossibile ricostruire la reale identità di un soggetto e, quindi, individuarlo.
      Solo per fare un esempio, si ricorda che nel 1999, nel corso di un'indagine su un vasto traffico di stupefacenti e su un sequestro di persona a scopo di estorsione, un cittadino marocchino e la moglie italiana - tuttora destinatari del programma di protezione - intrapresero un percorso collaborativo, chiamando in correità decine di persone, per lo più di nazionalità marocchina. Il collaboratore marocchino era molto preciso e anche in grado di indicare i nominativi dei complici e i luoghi dagli stessi frequentati, quindi si prospettava un ottimo risultato. Ma, redatto il primo verbale, si intuì immediatamente che l'ostacolo maggiore era costituito dalla identificazione dei correi.
      Al di là di questo singolo episodio, più in generale sappiamo che l'uso di plurime e false generalità ha, di fatto, consentito a delinquenti incalliti di ottenere svariate sospensioni condizionali della pena, patteggiamenti e scarcerazioni fondati sulla formale incensuratezza dell'indagato che, con altri nomi, ha, in realtà, già commesso numerosi reati e, in molti casi, è anche titolare di un regolare permesso di soggiorno. Questo perchè la concessione del permesso avviene senza alcuna concreta possibilità di una preventiva verifica dell'eventuale passato criminale dello straniero che, se pregiudicato, può continuare a delinquere, utilizzando false generalità e, contemporaneamente, apparire come un onesto cittadino, esibendo, quando necessario, il permesso di soggiorno contenente le uniche generalità con le quali non ha mai fatto ingresso in un procedimento penale.
      L'articolo 5 del citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998, al comma 2-bis testualmente prevede: «Lo straniero che richiede il permesso di soggiorno è sottoposto a rilievi fotodattiloscopici».
      Quindi non un obbligo ma una facoltà, così come il medesimo testo unico dispone per il rinnovo del permesso che, quindi, può tranquillamente avvenire senza alcun fotosegnalamento quando magari, nel frattempo, il titolare ha commesso reati utilizzando nominativi di fantasia.
      Per comprendere gli effetti deleteri, sulle risposte alle forme di devianza, derivanti dall'attuale sistema di regolamentazione della disciplina dell'immigrazione è necessario chiarire, alla luce del contenuto del citato testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e del relativo regolamento di attuazione, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, e successive modificazioni, che le attuali modalità di concessione del permesso di soggiorno sono solo apparentemente rigide e selettive.
      Nell'attuale impianto normativo, la possibilità di ottenere, o di rinnovare, il permesso di soggiorno è subordinata alla presenza di tre presupposti generali: l'esistenza di una motivazione per l'ingresso in Italia (lavorativa, religiosa, collegata allo studio, per consentire il ricongiungimento familiare); la disponibilità in capo al richiedente di adeguati mezzi di sostentamento; l'assenza di accertata pericolosità.
      Inoltre, un ulteriore punto critico dell'attuale sistema è costituito dalla materiale impossibilità di una costante verifica della permanenza, nel tempo, dei presupposti legittimanti la concessione del permesso.
      Le carenze di personale ed i notevoli problemi organizzativi degli uffici immigrazione delle questure, accompagnati dal mancato raccordo tra l'autorità giudiziaria e tali uffici, rendono spesso impossibili tali verifiche.
      Le sentenze a carico di stranieri muniti del permesso di soggiorno sono spesso relative a soggetti condannati con nominativi diversi da quello utilizzato per ottenere il permesso. E, in questi casi, è impossibile formulare, a carico del titolare del permesso di soggiorno che venga condannato per reati gravi, la «prognosi» di pericolosità che consentirebbe la revoca del permesso e la conseguente espulsione.
 

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      L'articolo 5 del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, che attualmente disciplina il rilascio del permesso di soggiorno deve, quindi, essere armonizzato a queste elementari esigenze.
      Si impone una scelta di fondo: il permesso di soggiorno non può essere riconosciuto a chi commette crimini di una certa gravità e a chi si occulta sotto false generalità.
      Anche nella prospettiva, che non può ragionevolmente essere esclusa, di future sanatorie generalizzate, si tratta di poter esercitare un efficace controllo preventivo sulla identità e sui reati eventualmente commessi in passato dai richiedenti, nonché di avere la possibilità di verificare che il titolare non si renda, in seguito, responsabile di delitti come quelli di cui agli articoli 380 e 381 del codice di procedura penale.
      Vi è, però, un altro dato che deve essere oggetto di attenta riflessione.
      La normativa sugli stranieri, come visto, non rende obbligatoria, ai fini dell'ottenimento del permesso di soggiorno, la sottoposizione del richiedente ai rilievi fotodattiloscopici (fotografie e impronte digitali), attraverso i quali è possibile ricostruire se, con diverse generalità, un individuo ha commesso in precedenza reati o è stato oggetto di un provvedimento di espulsione.
      In questo modo, lo Stato spesso concede il permesso a chi, in realtà, a causa dei suoi precedenti mai accertati, è persona pericolosa e, quindi, non sarebbe meritevole del beneficio. Ancora una volta il sistema non garantisce affatto una costante verifica del rispetto delle regole, in danno dei soggetti meno scaltri e avveduti ed a vantaggio di chi, magari fruendo delle sanatorie, si è radicato nel nostro Paese esclusivamente per delinquere.
      Inoltre, deve essere anche introdotto un trattamento sanzionatorio adeguato nei confronti dei soggetti che, in varia misura, concorrono alla realizzazione di documenti ideologicamente falsi impiegati per l'ottenimento di permessi di soggiorno.
      L'esperienza quotidiana ci insegna che il delinquente di importazione ha un estremo bisogno del permesso di soggiorno - con il quale può rimpatriare senza particolari controlli e può circolare liberamente nel nostro territorio quando non delinque - e spesso lo ottiene con dichiarazioni di compiacenti e inesistenti datori di lavoro, che non vengono sottoposte a un adeguato controllo da parte delle questure, oppure, in alcuni casi, anche per mezzo di compiacenti funzionari.
      Il ricorso a nominativi di fantasia è, forse, il reato più diffuso tra gli stranieri che delinquono.
      Indubbiamente molti di loro provengono da Paesi che non hanno neppure un'anagrafe e che non forniscono alcuna reale collaborazione per l'identificazione dei propri cittadini ma, al tempo stesso, sono perfettamente consapevoli dei vantaggi che derivano dall'impiego di false generalità.
      Al fine di disincentivare realmente la pratica del ricorso ai nominativi di fantasia è, dunque, necessario ridefinire, anche sotto il profilo sanzionatorio, il reato di cui all'articolo 495 del codice penale.
      La norma, introdotta in un contesto nel quale non vi era alcuna questione connessa alla criminalità di importazione, prevede una sanzione mite, proprio perchè era ed è, anche oggi, molto improbabile, da parte di un cittadino italiano, l'utilizzo di false generalità, essendo agevolmente ricostruibile la sua reale identità.
      Un incremento dei limiti edittali della pena prevista per il reato di cui all'articolo 495 del codice penale, che consenta l'arresto facoltativo in flagranza e l'applicazione della custodia in carcere nei confronti di chi fornisce false generalità, costituirebbe un concreto strumento dissuasivo e un intervento adeguato alla gravità del fenomeno nei confronti di soggetti che, per delinquere e per sfuggire all'individuazione, fanno costantemente uso di nominativi di fantasia, disponendo, così, di uno strumento in più rispetto ai criminali nostrani.
      Negli Stati Uniti, il fornire false generalità non solo comporta una pena elevata, ma è anche prevista la custodia in carcere
 

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senza limiti temporali sino a quando non è accertata la reale identità della persona.
      Quindi, l'introduzione di un meccanismo di controllo preventivo e successivo delle generalità all'atto della concessione o del rinnovo del permesso di soggiorno - garantito dal fotosegnalamento - e la concreta repressione dell'utilizzo di nominativi di fantasia, consentirebbero di ridurre drasticamente il numero degli immigrati di cui non si conosce la reale identità e priverebbero coloro che delinquono di questo sperimentato strumento.
      In questo contesto, l'attuale sanzione penale prevista dall'articolo 6, comma 3, del citato testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni, norma oggetto di contrastanti interpretazioni da parte della stessa Corte di cassazione, potrebbe essere tranquillamente abrogata.
      Attualmente la legge prevede una blanda sanzione per lo straniero che, controllato, non esibisca documenti, ma, soprattutto, non prevede in questi casi l'obbligo di sottoporlo a rilievi fotodattiloscopici, fissando in sole ventiquattro ore la durata massima del fermo per l'identificazione.
      Di fatto, lo straniero che, nel corso di un controllo, viene trovato sprovvisto di documenti subisce una denuncia a piede libero per un reato che in concreto non è punito e che, per come è formulato, non ha senso ed è di dubbia configurabilità (non è, infatti, reato la clandestinità ma solo il fatto di non esibire i documenti) ma, soprattutto, in queste occasioni non viene neppure fotosegnalato e, quindi, realmente identificato.
      Si deve, invece, porre le Forze di polizia nelle condizioni di svolgere un immediato ed effettivo controllo in tutte le occasioni in cui lo straniero sia sprovvisto di documenti, al fine di consentire un concreto accertamento della sua identità.
      Introducendo in questi casi l'obbligo del fotosegnalamento e dilatando i termini dell'attuale fermo per l'identificazione da ventiquattro a quarantotto ore, si scoraggerebbe l'uso delle false generalità in occasione dei controlli, consentendo una reale individuazione di chi ha la consuetudine di non esibire i documenti in tali circostanze.
      Con questi interventi nell'arco di un biennio la popolazione straniera risulterebbe realmente censita e la linea di demarcazione tra chi delinque e chi legittimamente aspira a un futuro migliore sarebbe tracciata.
      È, dunque, necessario creare un sistema circolare nel quale è sempre possibile il controllo dell'identità dello straniero mediante uno strumento (i rilievi fotodattiloscopici) che, senza essere invasivo o lesivo della dignità della persona, riproduce esclusivamente una caratteristica fisica della persona e che, rispetto a una semplice fotografia, è certo e non suscettibile di contraffazioni.
      Che il delinquente di importazione abbia più facilità a sfuggire ad un'identificazione con le conseguenze che essa comporta è evidente.
      Ma da un anno a questa parte sta diffondendosi in modo veramente sorprendente una prassi volta ad impedire, a volte in modo irreversibile, la possibilità concreta di una identificazione mediante la sottoposizione dell'interessato ai rilievi fotodattiloscopici.
      Immergendo i polpastrelli delle dita nell'acido si ottiene, infatti, l'abrasione delle creste papillari che consentono la comparazione dell'impronta. E se l'operazione è svolta in modo particolarmente approfondito le creste papillari, che in caso di un più blando intervento ricrescono nel giro di un mese, non si riformeranno mai più consentendo all'interessato di sfuggire per sempre a questi controlli.
      In altri termini, i soggetti che ricorrono a questo artificio non possono più essere sottoposti utilmente ai rilievi dattiloscopici, perchè l'operatore non è in condizione di effettuare le comparazioni o comunque di rilevare l'impronta in modo utile.
      Ed ecco che tutti gli sforzi volti a rendere efficiente il sistema di identificazione sono vanificati e chi si cancella le impronte dei polpastrelli può delinquere
 

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tranquillamente senza che di lui si possa ricostruire un'identità e, anche se arrestato, non si saprà mai nulla del suo passato criminale e quando verrà condannato per il reato commesso potrà nuovamente commetterne altri senza che di quel precedente resti una traccia, purché, naturalmente, il «nostro giovanotto» usi l'accortezza di fornire ogni volta una generalità diversa.
      E se il nostro soggetto, che potremmo chiamare «nessuno», ha commesso un reato, gli potrà essere concessa la sospensione condizionale della pena, perchè con il nominativo di fantasia che utilizza all'atto del controllo non risulterà mai pregiudicato.
      Sarà poi impossibile l'espulsione di «nessuno» dal territorio nazionale, perchè non avendo un'identità non vi sarà alcun Stato estero che si dichiarerà disponibile a riceverlo.
      Non sapremo mai se «nessuno» è stato in passato già espulso, perchè senza le impronte è impossibile saperlo.
      E se anche «nessuno» verrà accompagnato presso un centro di accoglienza, dovrà poi essere rilasciato e sarà così libero di restare nel nostro Paese a delinquere senza un nome.
      Di fronte a questa nuova frontiera, aperta, ovviamente, dal delinquente straniero, perchè soltanto a chi intende delinquere preme adottare tali accorgimenti, occorre introdurre una nuova figura di reato che preveda pene edittali congrue e la custodia in carcere.
      Attraverso l'introduzione dei correttivi descritti si potrebbe garantire un reale equilibrio tra gli interessi, meritevoli di tutela, dello straniero che, nel rispetto delle regole, si inserisce stabilmente nel nostro Paese e quelli, altrettanto fondamentali per uno Stato democratico, di garantire per tutti il rispetto delle regole, sanzionando le loro violazioni da parte di cittadini stranieri che, delinquendo, sottraggono spazi e risorse ad altri immigrati che, del tutto lecitamente, intendono migliorare le loro condizioni di vita, inserendosi stabilmente in Italia.
      Si tratta, quindi, di fare delle scelte, che si traducano in atti concreti, per consentire di riportare la situazione dall'attuale emergenza a un reale equilibrio.
 

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